Ho avuto l’onore di recente di far conoscere ad altri concittadini l’opera e la vita di un uomo speciale: Giovanni Perich.
Ne ho parlato, grazie all’aiuto di preziosi amici che, come me, lo hanno avuto come insegnante, lo scorso 30 luglio alle Serre dei Giardini Margherita. Di seguito un resoconto di quanto è stato detto e letto.
La passione interminabile:
Giovanni Perich, un poeta bolognese.
Serre dei Giardini Margherita, Bologna 30 luglio 2015
Questa sera vi vogliamo parlare di Giovanni Perich, un poeta bolognese che alla maggior parte dei suoi conicttadini è rimasto sconosciuto. Eppure questo poeta, uomo e insegnante che per i suoi allievi ha incarnato a tutto tondo la figura del Maestro, ha abitato a poche centinaia di metri da qui e altrettanto vicino insegnava. A molti di voi sarà senz’altro capitato di averlo incontrato al Caffè Zanarini, al Roxy Bar oppure, negli ultimi anni, al Caffè Zamboni.
Un uomo schivo, che dal tavolino del caffè osservava la città. E le donne e gli uomini con essa, e che dal suo osservatorio speciale, ha scritto una considerevole quantità di poesie, parte delle quali ad oggi inedite, e molte altre pubblicate in otto libri, a cui si aggiungono due raccolte di epigrammi, due romanzi e alcune biografie storiche.
Dopo la scuola, il caffè era infatti il luogo dove, con una consumazione che poteva durargli un pomeriggio, prendeva appunti, elaborava versi, incontrava i pochi amici e ironizzava sul mondo.
Sì, perché di Giovanni Perich colpiva l’ironia, la distaccata visione sulle cose e sulle persone, che non gli ha impedito di cogliere i mutamenti della società e dei rapporti, specialmente quello amoroso tra uomo e donna, che si possono riscontrare in tutta la sua opera, anzi, ne sono il fulcro.
Però – ed è un dato di fatto – nella nostra città quasi nessuno lo conosce, se non i pochi, come noi, che hanno avuto il privilegio di averlo come insegnate e di rimanergli amici.
È per questo che stasera desideriamo farvi conoscere alcuni aspetti dell’uomo, dell’insegnante e del poeta che, se non altro, possano far nascere un po’ di curiosità sulla sua opera, partendo dal racconto, dal ricordo di ciò che per noi ha rappresentato.
Biografia
Giovanni Perich nasce a Bologna il 26 febbraio 1941 da Giorgio, commerciante di origini dalmate, ma di forti sentimenti italiani, e Mafalda D’Alicandro, promettente attrice filodrammatica di origini toscane.
I genitori si conoscono a Milano, ma a cavallo tra le due guerre si trasferiscono a Bologna, per via di un intervento che il padre ha subito al rinomato Istituto Ortopedico Rizzoli. È in questa città che nascono tutti e tre i loro figli: Corrado, Marcello e Giovanni.
La famiglia è benestante, e in questo contesto Giovanni è supportato nella sua passione per la letteratura in genere e la poesia in particolare, soprattutto dalla madre, che spesso gli regala raccolte di poesie o romanzi.
Negli anni del liceo, il rinomato Galvani, avviene il fatale incontro tra Giovanni e il poeta Gaetano Arcangeli, suo professore di italiano e latino, che successivamente diventa suo maestro e amico.
Dopo la laurea in lettere, Giovanni intraprende la strada dell’insegnamento, con la speranza neanche tanto nascosta di ripercorre le orme del suo maestro. Insegnerà infatti dapprima al Galvani, e poi al Righi, dove rimane fino a fine carriera.
Arrivato alla pensione, era solito trascorrere le sue mattine al caffè Roxy, in via Rizzoli, e successivamente al caffè Zamboni, spesso in compagnia di qualche suo ex studente, con il quale allentava la tensione del fare poesia con divagazioni a tutto tondo, soprattutto sulle sue passioni: il cinema, il calcio (era tifoso sfegatato e competente del Bologna), la buona cucina e la vita in tutte le sue manifestazioni.
Ci ha lasciato nel 2013, alla stessa maniera con cui ha vissuto: discretamente e in disparte, come ha scritto in una delle sue ultime poesie
Così avverrà
Senza rumore, una
sigaretta caduta dal pacchetto.
Il Professore-Maestro
L’aspetto principale che vorremmo farvi conoscere di Giovanni Perich, è proprio il suo ruolo di professore. Se si potessero raccogliere le testimonianze di tutti i suoi allievi, siamo sicuri che tutti menzionerebbero la lettura che faceva in classe, il primo giorno di lezione, de “La giacca verde” di Mario Soldati. Quello era il suo cavallo di battaglia e il suo “rito di iniziazione”, per creare immediatamente un clima di stupita e affascinata attenzione. Adolescenti che si aspettavano la solita lezione di Italiano, assistevano invece a una interpretazione attoriale del loro professore. Apriva il libro, senza tanti preamboli o spiegazioni, e con la sua voce profonda ti catturava dentro la storia, le parole del romanzo ti arrivavano dentro…
Lo stupore per la non convenzionalità dell’insegnamento, continuava nel momento del primo compito in classe di latino (ora si chiamano verifiche…), quando con aria quasi scocciata, dettava “coram populi” una sommaria traduzione in italiano del testo latino, facendo capire che non si aspettava da noi una semplice traduzione sintatticamente corretta (per quello esistevano già le antologie, usava ripetere), ma una vera e propria “traduzione poetica”. Allo stesso tempo, però, lasciava libero chi non se la sentiva di cimentarsi in questo tipo di prova, di attenersi al testo.
Che dire? Anche i meno portati, i più “somari” si esibivano in prove originali, dando testimonianza, a pensarci bene, che ai ragazzi andrebbe trasmessa la passione più che la nozione.
E poi insegnava letteratura leggendo tanta poesia, quasi tutta del Novecento, soprattutto degli autori per i quali nutriva stima, ammirazione e, perché no?, anche un pizzico di invidia: Saba, Montale, Sereni, Penna, e ovviamente il suo maestro Arcangeli, cercando di trasmettere prima di tutto l’amore per la poesia, questa cosa così inutile e incomprensibile, senza la quale, però, il mondo morirebbe.
La lezione di poesia
Chi ha avuto la fortuna di essere stato allievo di Giovanni Perich, nonostante tutto, non riesce facilmente a descrivere a parole la bellezza e la purezza di questo evento, fuori da qualsiasi canone dei cosiddetti programmi ministeriali, che, per chi lo ha voluto, ha cambiato il modo di apprezzare la poesia, l’arte e la vita stessa.
Si aveva spesso la sensazione che le sue lezioni non fossero normali spiegazioni, bensì il contatto diretto con la poesia: un po’ come bere l’acqua pura direttamente alla fonte. Non ci sono strumenti di mezzo in questo gesto: niente bicchieri, niente bottiglie, niente di niente. Ti arriva la freschezza direttamente dalla fonte.
E così era con Giovanni: dalla sua bocca, con le sue parole pronunciate con consapevolezza, usciva poesia fresca e pura.
Le sue poesie
Preparare questa serata, per noi ex allievi, è stata un’ulteriore occasione per condividere non solo i ricordi, che come potrete immaginare sono tantissimi, ma per rivivere le emozioni mantenute vive dall’amore e dall’amirazione che dai nostri 16 anni in poi abbiamo provato e proviamo anche adesso, che lui non è più tra noi.
La speranza è che con questo piccolo ricordo da stasera Bologna abbia la voglia di scoprirlo, al di fuori degli ambienti accademici e polverosi, e in ognuno di voi sorga la curiosità di leggere le poesie di Giovanni Perich.
Porto Corsini 1946
C’erano punte di spilli sul mare
quel giorno, oblique. Io per la prima volta
lo scoprivo venendo dalle erbacce, come una
detonazione blu, via via slargantesi.
Sfollamento
Uscivo da un casermone, a Piticchio.
Una macchina ferma, sul portone,
friggeva. Avevo – io o qualcuno – scordati
su i guantini, di lana blu, a gattini.
Mia proprietà. Ma era
il terzo piano e
così raro a quei tempi avere un’auto.
Tutto premeva intorno a me. Partimmo,
io con dentro, però, un’idea, la prima,
di ingiustizia e di perdita.
Tra via goidanich e via marchesana
È di domenica, d’inverno, quando
Può capitarmi di trovarmi dentro
stretti e nobili vicoli,
e la città più di sempre pietrosa
nel ventoso silenzio
della prima mattina
rispecchia il sonno appena rotto, e
l’occhio guarda all’insù, che stranamente
in folla mi si affacciano
tutte le ex alunne
come ora le immagino,
in vestaglia e ciabatte
sedute nelle cucine soltanto
ancora tiepide, mentre
pigramente cominciano a pensare
a come organizzare,
tra fornelli e lavello,
la giornata campale della casa.
Perché scrivo
Per questa morte,
per il vostro passeggio
lungo Strada Maggiore
e il portico dei Servi,
per il fotografato istante d’ora,
che il vuoto di uno solo
non muta: dagherròtipo
a futura memoria,
struggente quanto più
anonimi ora, frettolosi,
vi ignorate incrociandovi.
Al caffè
Guardami guardare,
ascoltami volubile
straparlare, bluffare, allegramente
mescolando le carte. È il mio lascito,
pascolo senza limiti
alla reminiscenza,
ridanciana o compunta, dei superstiti.
È l’ultimo messaggio, è il pre silenzio.